Conflitti con gli altri o conflitti con se stessi?

 

Avete mai notato che vi inalberate sempre sulle stesse questioni? O sugli stessi atteggiamenti, illazioni, o argomenti? La cosa interessante è che non sembra fare differenza se ad accendere la miccia sia un famigliare, un amico o un collega di lavoro. In tutti i casi quando accade si salta sull’attenti chiamati a difendere visceralmente il proprio punto di vista sospinti dalla rabbia, in violenti alterchi.

Come mai? Sembra ci siano in noi delle zone minate che nessuno può oltrepassare, basta poco per sollecitarle e fanno salire la collera. Crediamo siano gli altri a provocare queste reazioni, ma non è così.

Non hanno colpa i malcapitati che si vedono riversare tanta rabbia, perché sono i nostri luoghi interiori, minati da ferite antiche, che si manifestano. Le mine stesse sono blocchi energetici di traumi o circostanze difficili, mai osservate e vissute a livello emozionale fino in fondo. Probabilmente si è preferito silenziarli, cercare di dimenticare, soffocarli con frettolosi giudizi o valutazioni lapidarie che hanno funzionato da coperchi di scomodi ricordi rimasti attivi nelle nostre viscere.

E così quando qualcuno o qualcosa ci fa avvicinare a sentire nuovamente, risvegliando quel vissuto, scattiamo a bloccare l’insorgere del volume emozionale che è rimasto bloccato fino ad allora nascosto nel corpo fisico. Un congelato di  emozioni che vuole essere liberato, rilasciato come è giusto che sia perché così funziona il corpo umano.

Facciamo un passo indietro: quando si è bambini le emozioni sono l’unico linguaggio che ci permette di comunicare con gli altri, a tutti i livelli. Il pianto del neonato è stato studiato e codificato proprio con l’intenzione di comprendere i suoi bisogni, è il suo linguaggio.

Il bambino non tralascia alcuna sfumatura del suo sentire, esprime tutto perché non ha ancora imparato a controllare le sue emozioni. Semplicemente il bambino “è” l’espressione del sentire momento per momento.

Col tempo, invece già da adolescenti impariamo a non permettercelo più e così blocchiamo sistematicamente il sentire, non lo mostriamo agli altri e gradualmente neanche a noi stessi. Sistematicamente ci stratifichiamo di blocchi emozionali che rimangono silenti, chiusi dentro di noi.

È possibile ritrovare il proprio centro,  riconquistare la libertà di “essere” ovvero di sentire ciò che si esprime in noi, prendersene la responsabilità senza temerlo, momento per momento. Ci si può aiutare scegliendo consapevolmente giorno per giorno, di ritagliare un momento di raccoglimento e pura osservazione di ciò che contattiamo nel profondo. Al solo richiamarlo è possibile tornare a cogliere in pienezza qualunque stato d’animo, basterà fermamente “stare” a osservare l’emozione o la sensazione muoversi in noi, senza giudizio, senza paura, come si faceva da bambini, fino a quando ci ha del tutto attraversato. Così si impara ad allenare l’equanimità: ovvero la capacità di essere presenti, senza reagire, al proprio sentire. È un allenamento che porta progressivamente alla calma,  maggior equilibrio,  niente più sbalzi d’umore. Con la pratica quotidiana, si può acquisire maggior chiarezza mentale, benessere nelle relazioni interpersonali e una ferma consapevole connessione con il profondo, senza paura.

È così che il conflitto tra persone si svela essere più frequentemente il risultato di un disagio individuale che sollecitato si manifesta, e che, inaspettatamente, non ha niente a che vedere con la relazione stessa.